Esplorazione. Esperienze o obiettivi di vita?

Tempo stimato per la lettura di questo articolo: 6 minuti.

«Abbiamo smesso di inventare parole
senza mai trovare quella che voleva dire
“vivere”».

Roberto Vecchioni, Milady

Dopo aver scoperto come gli algoritmi predittivi potevano “controllare” le sue azioni e sviluppata un’inquietudine prodotta dalla paura di non essere lui a scegliere della propria vita, Max Hawkins ha deciso di affidarsi al caso, per uscire dalla “bolla” che si era creato attorno. Per due anni è andato a vivere in città scelte da un algoritmo su base casuale, cambiando meta ogni 3-4 mesi.
Tu affideresti la tua vita ad un algoritmo in modo che ti muova «at random», fuori dalla tua comfort zone?

Con questa domanda si è aperta la discussione sul tema dell’esplorazione, scelto da TED per il mese di novembre, al TED Circle organizzato alla Scuola Superiore di Catania il 27 novembre. La forma del Circle consente il dialogo su temi ricchi di spunti nel miglior modo possibile: tutti sullo stesso piano e aperti all’arricchimento per mezzo dell’incontro con l’altro. La domanda sorge a seguito del talk di Max Hawkins “I let algorithms randomize my life for two years”, su cui è incentrato anche un altro articolo del nostro blog.

Il “gioco” di Hawkins: fin dove arriva il nostro arbitrio?

Hawkins specifica di aver potuto compiere questo esperimento solo dopo aver raggiunto una stabilità economica che glielo consentisse. La prima reazione, nel nostro piccolo cerchio, è stata, pur nelle diverse sfumature, la stessa: il suo “gioco” non comporta un rischio. Qualcuno ha anche pensato che, mosso da noia, l’esperimento di Hawkins fosse proprio esercitare la libertà in ciò che trova superficiale: le sue sarebbero solo mosse reversibili. Tocca chiedersi, quindi, se il tempo speso a vivere situazioni generate in modo randomico sia perso in un gioco o vissuto in esperienza.
Se le scelte operate casualmente dall’algoritmo non avessero riguardato solo questioni superficiali? Hawkins elabora un sistema casuale perché sente di non avere il controllo della propria vita e, per aprirsi al mondo fuori dalla sua bolla, che gli era sconosciuto, delega la scelta dei suoi movimenti al caso.
Qui le opinioni hanno mosso dialetticamente il nostro cerchio: Hawkins, così, si rende esente da responsabilità?

Torniamo indietro. L’obiettivo dello speaker, più che riappropriarsi del controllo della propria vita, dandole una direzione ben definita e programmata, è sfuggire a quello che sembra essere un “algoritmo reale” per cui tutte le nostre scelte sono già influenzate dal contesto sociale in cui viviamo, dal nostro background culturale, dalle persone che ci circondano, dalla pubblicità et cetera. Dove opera il nostro arbitrio quando scegliamo, anche casualmente, da una lista di cose del tutto non casuali?
La nostra sembra essere un’“illusione di controllo”, racchiusa tra i due estremi di una vita entro standard e comportamenti precisi, facilmente studiabile in quelle leggi naturali che l’analisi predittiva consente di elaborare, e la vita sperimentata da Hawkins, affidata al caso, ma che non sfugge a una forma di controllo.
Lo stesso speaker si trova infatti ad ammettere che scegliere casualmente in una città come Mumbai o in una città come Vienna non poteva, evidentemente, essere la stessa cosa. In ogni città in cui si trovava a vivere era come chiederle cosa la caratterizzasse, cosa poteva offrire. Così, anche la scelta casuale lo portava a praticare yoga a Mumbai e a partecipare ad eventi musicali a Vienna. Il nostro arbitrio si soddisfa di scegliere tra opzioni già ben limitate e definite? Siamo davvero noi a scegliere?

Tra dovere e utopia, inerzia e caos

È emerso poi che lo speaker si potesse muovere in questo modo, senza aver cura delle proprie scelte, perché, già raggiunta la stabilità e privo di obiettivi, sarebbe inquieto e teso verso un uso consumistico dell’avventura e delle città che viveva. Questo ha stimolato una riflessione sull’idea di una direzione da ricercare nella vita. Codici deontologici frutto delle più varie filosofie morali o di diverse religioni si sono spesso trovati d’accordo nel vedere la vita come compresa in coordinate precise che la indirizzerebbero verso obiettivi da raggiungere, missioni a cui promettere il proprio impegno e tutti noi stessi.
Scelte così assolute rappresentano solo una faccia della medaglia. In ogni periodo storico l’umanità ha percepito un bisogno di evasione, forse incostante, ma permanente, che ritorna a farsi sentire come un tarlo. Così nasce il mito di una fuga dalla quotidianità, di quell’isola verde, non trovata, ma costantemente presente nell’immaginario collettivo. È una tensione mai soddisfatta, la ricerca del piacere e quell’ansia di infinito su cui tanto hanno ragionato Leopardi e Kierkegaard.
La maggior parte dell’umanità vive tra questi due estremi, non concependo né una vita con obiettivi assoluti né una improntata alla filosofia YOLO (You Only Live Once). Qui si inserisce il problema della scelta, quotidiana e mossa sempre tra il fuoco del comodo, dell’inerzia e quello dell’ignoto, del caotico. Ma come si compie una scelta? Cosa fa più paura tra l’inerzia e il caos?

«Arriva un mattino improvviso
Una luce strana che entra da una finestra
E sotto è sparito il cortile
C’è un’isola verde che tinge gli occhi di festa
[…]
Mi chiamano pazzo perché
Ho sempre in mente di andarmene dalla città
Di andarmene a vivere là
Nell’isola verde della mia felicità».

Claudio Lolli, L’isola verde

The Great Resignation: il cambio di direzione

È interessante, a questo punto, riflettere sul fenomeno che è stato definito come Great Resignation, la tendenza crescente, riscontrabile su scala mondiale, ad abbandonare volontariamente il proprio lavoro, spesso senza averne ancora trovato un altro. Hawkins può vivere da apolide per due anni perché freelancer, perciò il suo esperimento può essere interpretato come un “gioco”. Il fenomeno delle grandi dimissioni non può essere visto seguendo quest’ottica.
Come se la crisi sanitaria fosse stata per molti un momento rivelatore, analizzando alcuni dati è facile rendersi conto del fenomeno e di come esso non sia riconducibile a un solo fattore o soltanto a motivazioni particolari dei singoli. Qual è il comune denominatore?
Chi lascia volontariamente un lavoro, fatte le opportune eccezioni, di scarsa rilevanza statistica su campioni tanto vasti, ricerca una migliore qualità della vita, un senso di maggiore realizzazione.

Umberto Galimberti, sollecitato sull’argomento della Great Resignation, ha ricondotto il fenomeno a ragioni simili: in un mondo che contempla come valori dominanti l’efficienza e la produttività e antepone la velocizzazione del tempo alla qualità del tempo stesso sembra che un numero consistente di giovani stia cominciando a pensare alla qualità della propria esperienza e del proprio tempo. La vita va pensata come produzione finalizzata al raggiungimento di obiettivi o in relazione alla qualità delle esperienze che viviamo? Di nuovo due estremi e, ancora, nessuna soluzione che ci assicuri il controllo e la direzione della nostra vita. Galimberti denuncia l’ottica della programmazione costante, improntata all’efficienza, per rivalutare l’idea di persona:

«Gli algoritmi governano l’organizzazione delle imprese. Ma cos’è un algoritmo? L’algoritmo dopo aver raccolto i miei micro-comportamenti, i micro-bisogni, i micro-desideri, fa di me un profilo. Quel profilo sono io? No, quel profilo mi dice a cosa servo io! I giovani rifiutano questa concezione. Perché devo essere qualificato solo dal punto di vista del servizio e mai individuato come persona

Il senso della vita

Quella dell’uomo è una vita che tende verso l’esplorazione e la ricerca di realizzazione. Le due cose sono in contrasto? Ognuno di noi ricerca un senso nella propria vita, è una cosa che ci accomuna tutti. Ma questo senso sta nelle esperienze che viviamo o nell’obiettivo che ci siamo posti? Quanto vale una bella soddisfazione contro anni di sofferenza per raggiungerla? È chiaro che non ci sia una risposta a queste domande: dipende dall’obiettivo e, banalmente, dal nostro arbitrio. Vivere non conosce risposte sbagliate in questo senso e il quesito resta aperto.

«Il senso della vita
E chi l’ha mai saputo
Non dirmi cosa è giusto
Ma cosa ti è piaciuto».

Jovanotti, Il mondo è tuo (stasera)

post it contenenti le rifles