La fotografia ai tempi del COVID-19. Intervista a Salvatore Di Gregorio

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Abbiamo avuto il piacere di ascoltare Salvatore Di Gregorio già lo scorso 7 dicembre in occasione dell’evento TEDxCataniaWomen, tenutosi all’Auditorium De Carlo, al Monastero dei Benedettini di Catania. Oggi, invece, abbiamo scoperto in che modo un fotografo come lui, impegnato in progetti dal grande valore umano e di attualità, ha vissuto quest’ultimo periodo di quarantena e quali siano i suoi progetti per il futuro.

Come stai vivendo questo periodo di quarantena?

Mi è accaduto di vivere questi cambiamenti molto velocemente. Sono a Caltagirone in questo momento, a casa, ed ero già tornato in Sicilia a fine febbraio. Avevo delle idee in testa e sono tornato qui per svolgere delle ricerche prima del lockdown. Nel frattempo in Italia si stava ancora definendo la situazione che abbiamo vissuto negli ultimi mesi, regnava un’atmosfera di confusione e di leggerezza, tra gli annunci dei virologi in televisione e i famosi aperitivi di chi ancora non aveva capito la gravità di quella che poi è diventata una pandemia. Nel giro di una settimana è successo di tutto e i miei progetti sono rimasti bloccati insieme ai miei voli. Ho deciso quindi di passare questo periodo con i miei familiari, sapendo, d’altronde, che il problema si sarebbe esteso anche a Londra.
Come tutti ho cercato di fare le cose che prima non avevo il tempo di fare. Anzitutto ho avuto l’opportunità di rilassarmi, ma ho provato ad usare questo tempo al massimo e, deciso a non pensare in negativo, sto pensando a nuovi progetti. Adesso speriamo che il grosso sia passato in modo da uscirne il prima possibile.

Allora partiamo proprio da dove hai passato gli ultimi mesi: la tua isola, la Sicilia, intesa non solo come tua terra d’origine, ma anche, e soprattutto, come ci ricordavi nel tuo talk, quale crocevia di mondi e di culture. Tu però non vivi più in Sicilia, che cosa ha ancora rilevanza in te della sua cultura e cosa hai portato di questa a Londra?

Io penso che essere siciliani sia più uno stile di vita che altro. Mi spiego meglio. Si tratta di valori, l’importanza della famiglia, cose semplici con cui sei nato e che ti porti dietro. Cerco di portarli con me sempre, ovunque io sia. A prescindere dalla lingua che parlo penso che essere siciliani sia questo: avere semplicità nell’essere. Forse lo manifesto nel carattere. Siamo diversi in come portiamo avanti le cose, unici nella nostra particolarità. Chi mi conosce vede in me un’emotività forte, un fattore diverso rispetto al “classico inglese” che capita di incontrare a Londra. A volte può anche essere un difetto, ma è tardi cambiare e, in fondo, mi piace sempre essere così.

Per non parlare della gestualità!

Certo, quella aiuta molto nel farsi riconoscere. Abbiamo modelli gestuali facilmente riconoscibili. Si potrebbe dire che parliamo con le mani. Ma penso che il vero bagaglio culturale da portare per il mondo sia il nostro sistema di valori, spesso persi in molte altre società.

Il tuo legame con un determinato sistema di valori è facile da notare. Sei un fotografo e il “dovere di dare un volto nuovo e positivo” è l’input che ti ha mosso alla realizzazione del tuo progetto con il centro di accoglienza di Mirabella Imbaccari per donne e bambini richiedenti asilo politico. Lì hai conosciuto donne che hanno dovuto lasciare la propria terra per necessità economiche e donne scappate da violenze o torture. Ci sono storie che ti sono rimaste più impresse di altre? Se sì, perché?

Il motivo per cui ho realizzato il progetto è anche molto attuale. Basti pensare alla tragedia di George Floyd negli Stati Uniti o a frequenti casi di questo tipo. Penso che sia necessario trovare un punto di incontro tra culture, un dialogo che unisca persone che magari non hanno altro modo di avvicinarsi. In particolare il problema che mi aveva mosso è quello degli immigrati in Sicilia. Mi ha sempre dato tristezza lo stereotipo, infuso anche dai media, che ritrae questa gente sempre in maniera violenta. Sono del parere che vada instaurato un rapporto di dialogo e conoscenza. Spesso il motivo del pregiudizio razziale non è altro che l’ignoranza.
Nel 2016 ho voluto creare un progetto nuovo, un’opportunità di conoscenza. Era il periodo in cui arrivavano moltissime persone dai barconi e il problema dell’immigrazione era più attuale di ogni altro, al centro di ogni notiziario. I media erano molto concentrati sulla Sicilia e sui numerosi arrivi dal Nord Africa. Ho cercato di mettere in relazione due mondi divisi da un muro: il nostro e quello dell’immigrato, dipinto arbitrariamente come violento, spacciatore o prostituta. Ho voluto rompere questo ritratto e crearne un altro, che mostrasse il lato bello con un progetto accattivante. Conosciuta la bellezza del centro di Mirabella grazie a dei miei amici, sono andato a trovare queste ragazze e, dopo averle conosciute, ho fatto nascere il progetto grazie al quale abbiamo anche fatto amicizia. Le ragazze si sono tutte divertite, ma hanno anche lavorato molto. Le acconciature che avete visto nelle foto richiedevano ognuna, nella sua unicità, almeno 8 ore. Ogni ragazza ha creato un look diverso, che rappresentasse la propria attuale condizione di richiedente asilo politico. Ho chiesto loro di pensare come vivono questo momento e di descriverlo attraverso la tradizione, propria della loro terra, di esprimerlo attraverso un particolare look.
Non c’è una storia a cui sono legato più di un’altra. Sono tutte diverse e uniche. Ci sono storie orribili e tragiche e storie di persone partite semplicemente con uno zaino in spalla dal Ciad come dalla Nigeria e dal Sudan. Non occorre ricordi come anche solo un viaggio simile sia un trauma. Non esiste perciò una storia più importante, ma mi piace ricordare Josephine, una delle ragazze nigeriane con cui ha chiacchierato di più. Lei fa l’attrice e lo dimostra nell’atteggiamento teatrale e nel portamento elegante in ogni momento. È anche una persona molto divertente: ogni tanto iniziava a parlare bad english per ridere, proprio come facciamo noi con il dialetto.
Sono dell’opinione che chiunque dovrebbe fare questa esperienza e raccogliere messaggi del genere. Ho ricevuto molti messaggi positivi per la mia iniziativa, ma, dopo la pubblicazione dell’articolo di The Guardian che parlava del progetto, ho anche avuto delle critiche da una comunità nigeriana che sembra ritenesse che le acconciature che ho fotografato non fossero le migliori di cui è capace la tradizione nigeriana. Accetto ogni critica costruttiva e l’ho fatto anche con questa, ma penso che abbiano frainteso il significato del mio progetto. La mia idea era fare in modo di lanciare un messaggio dando la possibilità di esprimere la propria interiorità a quelle ragazze. È normale che esistano acconciature più belle, ma quelle sono state le scelte delle ragazze per parlare di sé stesse. La fotografia è uno strumento fortissimo e i suoi messaggi sono i più vari, può capitare che soggettività e oggettività si intreccino.

A proposito di quanto dicevi sull’immigrazione e su come la fotografia si relaziona con la quotidianità, cosa pensi dei ritratti di uomini e donne con mascherine, delle foto di piazze e luoghi simbolo del nostro paese completamente vuoti? In questo periodo abbiamo usato i social come una boccata d’aria dalla nostra monotonia e abbiamo avuto la possibilità di vedere scatti storici come quello del Papa in una deserta Piazza San Pietro. Come pensi abbiano collaborato quarantena e fotografia?

La fotografia è sempre stato un mezzo importantissimo per documentare epoche storiche, basti pensare agli scatti durante le guerre. Penso che le immagini delle piazze vuote e del Papa resteranno impresse per un po’ nella nostra memoria. Se i nostri ricordi di marzo e aprile passano, quelle immagini avranno vita più durevole. Per certo il metodo della fotografia non è cambiato, ma la novità è che il Covid19 è la prima pandemia a vivere questo effetto mediatico. D’altronde si è sviluppato a livello europeo nel giro di due settimane quando, in epoca storica, ci volevano anni per contagi del genere.
La domanda è: “Come la fotografia nell’era dei social riesce a veicolare un messaggio tale?”. Milioni di persone creano immagini dal forte impatto visivo perché sentono tutte il dovere di documentare il periodo della quarantena. Il messaggio bombarda ogni canale social e tende alla ripetizione. Io ritengo che creare un contenuto non sia sempre necessario o quantomeno non è necessario mostrarlo subito. Una mostra di foto realizzate in quarantena fra un anno susciterà più interesse di quanto non possa farne ora. Anche Armani e Gucci hanno invece deciso di rallentare la produzione creativa. Abbiamo bisogno di vedere tutto questo? Il messaggio, per quanto reale sia, è di tutta evidenza e lo vediamo ogni giorno sui giornali o in televisione. Ormai social e fotografia vanno di pari passo. I social hanno anche rovinato l’attesa. Se vivi un momento e decidi di condividerlo, ma migliaia di persone fanno la stessa cosa, il contenuto perde di significato. Il Covid19 ha mostrato questo problema, ma in realtà è un fatto pregresso. I social hanno fatto diventare una cosa drammatica quasi priva di interesse e tutto ciò mi ha creato tristezza.

Tu invece come ritrarresti l’epoca che stiamo vivendo?

In questo periodo sono stato a casa, non ho voluto fotografare le piazze vuote perché a me piace fotografare le persone, rappresentare il lockdown sarebbe stato triste. Penso piuttosto che mi piacerà ritrarre la situazione post-lockdown. Sarà più interessante rappresentare come vivrà la gente con le prossime limitazioni sociali nella stagione estiva.
In questa situazione non so davvero cosa vorrei fotografare, forse nulla. Non trovo ispirazione. Diciamo che lavoro meglio fuori dalle emergenze. Forse cercherei di riflettere sul tema della famiglia: chi ti sta vicino e chi rappresenta le ancore della tua esistenza, insomma, le persone con cui hai passato questa situazione eccezionale. Non c’è però qualcosa di particolare a cui ho pensato. Non ho idee come quella di Mirabella perché lì c’era un messaggio importante da lanciare. Adesso non saprei proprio cosa dire. Fotografare le piazze vuote di Caltagirone non creerebbe un grande effetto. Qui le strade sono spesso vuote a prescindere da limitazioni. Magari a New York l’avrei vissuta diversamente, ma preferisco così. Mi sono riposato in questo tempo, ma adesso è ora di ripartire.

Progetti in cantiere?

Di quelli ne ho tantissimi, ho un progetto in sospeso su degli artigiani in Colombia. Sarei dovuto essere lì tra marzo, aprile e maggio per poi trascorrere i successivi tre mesi negli Stati Uniti. Ho dovuto rinviare questi sei mesi di lavoro, vedremo a quando. L’Europa sta superando le prime limitazioni, ma l’America ha conosciuto il problema dopo rispetto a noi. Speriamo bene, io resto ottimista.