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Umberto Eco e le “legioni di imbecilli”
Per provare a rispondere al quesito è interessante partire da una riflessione di Umberto Eco di qualche anno fa. Nel giugno 2015, nel corso della cerimonia di conferimento della laurea honoris causa in Comunicazione e Cultura dei media da parte dell’Università degli Studi di Torino, il noto semiologo dichiarò ai giornalisti:
«I social media danno diritto di parola a legioni di imbecilli che prima parlavano solo al bar dopo un bicchiere di vino, senza danneggiare la collettività. Venivano subito messi a tacere, mentre ora hanno lo stesso diritto di parola di un Premio Nobel. È l’invasione degli imbecilli».
Spesso la frase di Eco viene riportata tra i propri argomenti dai sostenitori di una democrazia elitaria, in cui i diritti di voto e di partecipazione alla vita politica della comunità andrebbero subordinati al possesso di tutta una serie di conoscenze minime. Una proposta che mette in discussione i fondamenti dello Stato democratico di diritto e una delle grandi conquiste del XX secolo, il suffragio universale, e che per tali motivi non può essere accolta. Sarebbe invece opportuno avviare una seria riflessione sugli strumenti di cui un Paese può dotarsi per limitare il più possibile il numero delle persone prive dei mezzi per riconoscere le notizie false, in primo luogo ripensando il sistema d’istruzione di modo che esso educhi realmente al pensiero critico e scientifico. Altrettanto pericolosa sembrerebbe l’idea di istituire una sorta di “patentino della verità”, consentendo ai governi o ad altre istituzioni di cancellare ad libitum dal web i contenuti ritenuti non veritieri. Ma a chi dovrebbe spettare il diritto di decidere cosa è vero e cosa non lo è? In questo modo non si rischierebbe di comprimere gravemente la libertà di manifestazione del pensiero costituzionalmente tutelata? Il pericolo di un orwelliano Grande Fratello, detentore unico della verità, sarebbe troppo grande. Si instaurerebbe un’inquietante dittatura della (presunta) verità.
Con ogni probabilità le parole di Eco sono state travisate. È da escludere che fosse sua intenzione diventare l’alfiere di chi sostiene il superamento del suffragio universale o la limitazione della libertà di espressione di chi è privo di competenze tecniche. Il noto intellettuale si limitava a fotografare una situazione in cui per effetto della libertà di manifestazione del pensiero (che sarebbe senz’altro impensabile limitare) e dell’accesso pressoché universale da parte dei cittadini alla rete, la quantità di informazioni che riceviamo sul web è così elevata da rendere piuttosto complesso discernere tra le notizie attendibili e quelle che non lo sono. Cosicché, nel marasma di informazioni da cui siamo tempestati, l’opinione dell’imbecille e quella di un premio Nobel sembrano quasi assumere la medesima valenza, perdendosi nel grande chiasso digitale. È una delle conseguenze del fenomeno del sovraccarico cognitivo (information overload) a cui siamo tutti sottoposti. Siamo destinatari di una mole di informazioni che il nostro cervello non è in grado di processare adeguatamente.
È indubbio che i social abbiano creato un nuovo modo di fare informazione. Una modalità disintermediata, in cui ciascuno di noi è al tempo stesso fruitore e creatore di contenuti e di notizie.
Dal punto di vista giornalistico, il liveblogging su Twitter e Facebook ne è la rappresentazione più evidente.
Tutto questo, se da un lato permette a ciascuno di noi di diffondere notizie e contenuti bypassando il filtro dei media mainstream, presenta tuttavia l’inconveniente della obiettiva difficoltà dell’utente medio di valutare l’attendibilità dell’informazione riportata. Peraltro, a volte ad abboccare alle fake news sono persino i quotidiani più prestigiosi, con l’effetto di disorientare ulteriormente il povero lettore, che magari nutre una profonda fiducia nella serietà della testata in questione.
Non è che in passato non esistessero gli imbecilli. Ma un tempo certe uscite sarebbero state etichettate come chiacchiere da bar e non avrebbero avuto nessuna dignità d’ingresso nel dibattito pubblico. Oggi, invece, il dibattito pubblico è fluido, perché esistono alcune grandi piazze virtuali dove chiunque può (giustamente) dire la propria opinione, senza alcun controllo di attendibilità: i social.
Inoltre, in passato il fruitore riponeva grande fiducia nei confronti dei giornalisti e dei mezzi d’informazione, che ricoprivano un ruolo efficace di filtro e selezione nella diffusione delle notizie. Fiducia che negli ultimi anni si è trasformata sempre più in diffidenza e cultura del sospetto.
Negli ultimi anni, tuttavia, è cresciuto il numero di pagine web e social dedicate in maniera specifica al c.d. debunking, l’operazione di “smascheramento” delle bufale attraverso l’utilizzo di dati attendibili e il controllo delle fonti e dei fatti riportati (c.d. fact checking). In questo modo, sembrerebbe che Internet stia sviluppando autonomamente alcune forme di anticorpi per contrastare il fenomeno.
Ma torniamo alla domanda da cui eravamo partiti.
Scienza e democrazia
In questo interessante talk, il fisico teorico Lee Smolin affronta il tema del rapporto tra scienza e democrazia, riscontrando interessanti analogie.
«Noi riflettiamo molto su questa domanda: cosa permette alla scienza di funzionare? La prima cosa che sa chiunque conosca la scienza e che in qualche modo ha avuto a che fare con essa è che la roba che a scuola impari essere il metodo scientifico è sbagliata. Non c’è alcun metodo. D’altronde, in qualche modo riusciamo a ragionare insieme come una comunità, partendo da prove incomplete per raggiungere conclusioni che tutti condividiamo. E questo è il procedimento che, incidentalmente, anche una società democratica deve seguire».
Secondo lo studioso, la dinamica che conduce a conclusioni comunemente accettate nel mondo scientifico non è molto dissimile da quelle tipiche del procedimento democratico. Smolin, in particolare, ritiene che tale metodo funzioni in quanto gli scienziati sono una comunità tenuta insieme da tutta una serie di valori etici condivisi.
«Uno di questi principi è che tutti coloro che fanno parte della comunità devono dibattere ed argomentare con tutte le loro forze per ciò in cui credono. Ma siamo tutti disciplinati dalla comune intesa che le sole persone che infine decideranno se io ho ragione o qualcun altro ha ragione saranno i membri della comunità della prossima generazione, tra trenta o cinquanta anni. Quindi è questa combinazione di rispetto per la tradizione e per la comunità di cui facciamo parte e ribellione di cui la comunità ha bisogno per raggiungere un qualsiasi obiettivo che permette alla scienza di funzionare. E l’operare in questo processo, l’essere in una comunità che ragiona partendo da evidenze condivise per raggiungere delle conclusioni, credo ci insegni qualcosa sulla democrazia. Non solo esiste una relazione tra etica della scienza e l’etica di essere un cittadino nella democrazia, ma, storicamente, è esistita una relazione tra come le persone riflettono sullo spazio ed il tempo, su cosa sia il cosmo e come le persone riflettono sulla società in cui vivono».
Negare alla ricerca scientifica il carattere democratico rappresenta uno dei più grandi fraintendimenti circa la natura intrinseca della scienza nell’epoca contemporanea.
Spesso si afferma che “non tutti nel mondo scientifico hanno diritto di parola”. Falso. Nella comunità scientifica chiunque può sostenere qualsiasi tesi, purché supportata da dati sperimentali rigorosi. Non esistono preclusioni in ingresso, e non mancano ricerche anche piuttosto strampalate. Se esistessero argomenti tabù, la scienza non sarebbe realmente libera, ma assumerebbe un carattere spiccatamente dogmatico. Chiaramente, chi condivide le proprie conclusioni, si espone al rischio di vederle confutate da altri studiosi, in un processo dialettico continuo, che consente alla scienza di progredire, passo dopo passo. Non è un caso che di frequente vengano pubblicate ricerche che giungono a conclusioni apparentemente contraddittorie. E che spesso ricerche condotte in passato vengano smentite da ricerche successive. Sarà il tempo a dire quale teoria verrà comunemente accettata dalla comunità scientifica e diventerà prevalente. In questo senso, la comunità scientifica si fonda proprio sul consenso, esattamente come i sistemi democratici: una tesi si afferma perché condivisa dalla maggioranza o dalla generalità degli scienziati. Nel mondo scientifico non esistono certezze, né verità definitive. Se esistessero, non ci sarebbe alcun dibattito scientifico, né alcun progresso della ricerca, ma una sorta di stasi, di immobilismo generale.
Lo scienziato conclude così il suo talk:
«Ora, se riflettete sulla democrazia da questo punto di vista, una nuova nozione pluralistica della democrazia sarebbe quella in cui si riconosce che esistono molteplici interessi diversi, molteplici agende diverse, molteplici individui differenti, molteplici diversi punti di vista. Ciascuno è incompleto, perché fate parte di una rete di relazioni. Ogni attore di una democrazia è parte di una rete di relazioni. Alcune cose le comprendete meglio di altre e per tale motivo esiste un continuo scontro tra dare ed avere, che costituisce la politica. E la politica, nel senso ideale, è il modo con cui ci riferiamo continuamente al nostro network di relazioni in modo da ottenere una vita migliore ed una migliore società».
Anche la comunità scientifica, come tutte le aggregazioni umane, è una comunità politica. Ciò non significa, naturalmente, che essa persegua finalità politiche (almeno come comunemente intese): l’unico obiettivo della ricerca scientifica dovrebbe essere quello di creare dei modelli che rappresentino in maniera sempre più precisa e veritiera la realtà, mediante approssimazioni successive. E, se possibile, fare in modo che tali ricerche producano effettivi benefìci nelle nostre vite, nei più svariati campi (medico, tecnologico, sociale, ecc.).
La scienza sarebbe dunque democratica nella misura in cui il meccanismo che porta alla selezione delle teorie considerate più attendibili avviene in base al consenso da esse riscosso nella comunità di studiosi, in maniera analoga a quanto avviene (o dovrebbe avvenire) nella formazione delle decisioni nelle comunità democratiche. Naturalmente, tale consenso in ambito scientifico non sarà del tutto arbitrario, ma dovrà essere ancorato a rigorosi dati scientifici (elementi che, tuttavia, possono talvolta originare interpretazioni molto diverse tra loro). E sarà in ogni caso sottoponibile a revisione in futuro. Sarà poi la comunità scientifica a far “sopravvivere” le teorie maggiormente condivise, determinando il progresso delle conoscenze.
In tal senso risulta di estremo interesse il contributo del giornalista scientifico Pietro Greco, di cui si riporta uno stralcio:
«Cos’è, dunque, la scienza? Be’, da un punto di vista sociologico, come sostiene John Ziman, la scienza è un’istituzione sociale tesa a raggiungere “un consenso razionale di opinione” (cioè libero) sul più vasto campo possibile. La scienza, infatti, si sviluppa passando attraverso due fasi, una privata e l’altra pubblica. Quella privata è quando il singolo scienziato o, sempre più, i singoli gruppi di scienziati interrogano la natura. Ma i risultati ottenuti non sono ancora scienza finché essi non vengono comunicati a tutti (a tutti i membri dei “collegi invisibili”) e sottoposti ad analisi critica (fase pubblica). Naturalmente gli uomini di scienza hanno dei metodi (non “il” metodo) di lavoro. Ma nessun metodo può prescindere dal consenso razionale di opinione della comunità. È questa prassi che abbatte ogni paradigma di segretezza e di autorità ex cathedra che definiamo scienza. Questa prassi è intrinsecamente democratica. La scienza, dunque, è democratica. […] Certo le metodologie pratiche che usa l’istituzione “politica” per raggiungere un “consenso razionale d’opinione” sono diverse da quelle della istituzione “scienza”. Ma il sistema valoriale è sostanzialmente lo stesso: comunitarismo (comunicare tutto a tutti); universalismo (tutti possono concorrere al governo della cosa pubblica); disinteresse (obiettivo della democrazia è il bene pubblico); originalità (trovare soluzioni originali e appropriate ai problemi); scetticismo sistematico (rifiuto di ogni autoritarismo e ancor più di ogni dittatura). Dunque scienza e democrazia hanno molto in comune. Sono istituzioni che – idealmente – funzionano in maniera analoga e a tratti persino omologa».
Dal punto di vista dell’orizzonte valoriale, il metodo seguito dalla comunità scientifica, improntato al rifiuto del dogmatismo e del principio di autorità, sembra essere molto vicino alla definizione di democrazia data dal Presidente emerito della Corte costituzionale Gustavo Zagrebelsky:
«La democrazia, come la concepiamo e la desideriamo, in breve, è il regime delle possibilità sempre aperte. Non basandosi su certezze definitive, essa è sempre disposta a correggersi perché – salvi i suoi presupposti procedurali (le deliberazioni popolari e parlamentari) e sostanziali (i diritti di libera, responsabile e uguale partecipazione politica), consacrati in norme intangibili della Costituzione, oggi garantiti da Tribunali costituzionali – tutto può sempre essere rimesso in discussione. La vita democratica è una continua ricerca e un continuo confronto su ciò che, per il consenso comune che di tempo in tempo viene a determinarsi modificandosi, può essere ritenuto prossimo al bene sociale. Il dogma – cioè l’affermazione definitiva e quindi indiscutibile di ciò che è vero, buono e giusto – come pure le decisioni di fatto irreversibili, cioè quelle che per loro natura non possono essere ripensate e modificate (come mettere a morte qualcuno), sono incompatibili con la democrazia».