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A che servono le parole?
A che servono le parole? La prima risposta che ti viene in mente è, sicuramente, comunicare, ma dietro si nasconde molto altro. Vera Gheno in un talk svela qualche funzione in più.
La prima è descrivere la realtà che ci circonda: «Pensate bene, noi parliamo della realtà e decodifichiamo la realtà, mettendole dei cartellini, e ci riusciamo a intendere, perché siamo d’accordo su questi cartellini». Senza consenso su questi “cartellini” non sarebbe facile comunicare e lo dimostra citando l’esempio dello sketch della cadrega di Aldo, Giovanni e Giacomo, dove, senza accordo sul significato di cadrega, si crea uno squilibrio tra chi condivide lo stesso “cartellino” e chi invece ne rimane escluso.
Così si delinea un’altra funzione della lingua: «la lingua definisce la mia tribù. Quindi, io identifico le persone che appartengono alla mia stessa tribù». Il linguaggio, quindi, ci permette di individuare gli “altri”. Inoltre, proprio perché è in stretto contatto con la realtà e con il mio modo di intenderla e descriverla, se cambia la realtà, di riflesso anche la lingua muterà, adattandosi al cambiamento.
Se cambia la tua lingua, cambia la tua realtà.
La lingua è uno strumento che rispecchia la nostra realtà, e spesso siamo noi ad adattarla al nostro mondo mutevole, ma è vero anche il contrario: la lingua che parliamo influenza il nostro modo di pensare e la nostra percezione del mondo. L’influenza della lingua sul nostro pensiero non riguarda soltanto la struttura del nostro riflettere e ragionare, il modo “grammaticale” e razionale in cui sviluppiamo i nostri ragionamenti e in cui strutturiamo le nostre argomentazioni. La lingua che parliamo ci influenza in modo molto più profondo, come spiega Lera Boroditsky in un suo talk per TEDWomen.
La lingua che parliamo influenza il modo in cui percepiamo i colori, il tempo, lo spazio e anche la colpa.
Cambia il tuo spazio.
Come cambierebbe, ad esempio, la tua percezione dello spazio se non usassi concetti come “sinistra” e “destra”, ma solo i quattro punti cardinali? Una popolazione di Aborigeni in Australia, i Kuuk Thaayorre, ha una lingua strutturata in questo senso, con tutto ciò che questo comporta, come spiega Lena Boroditsky.
«Potreste dire qualcosa tipo: “Oh, hai una formica sulla gamba a sud ovest”. Oppure: “Sposta la tazza un po’ più a nord-nord est”. Di fatto, il modo in cui si dice “Ciao” in Kuuk Thaayorre è: “Da che parte stai andando?” E la risposta sarebbe: “In lontananza verso nord-nord est. E tu?” […] Ma questo, in realtà, vi permetterebbe di orientarvi velocemente, no? Perché non potete andare oltre il “Ciao”, se non sapete dove state andando. Infatti, le persone che parlano lingue come questa sono ben orientate. Rimangono orientate meglio di quanto pensavamo fosse possibile a una persona. consideravamo gli uomini meno capaci di altre creature, a causa di alcune scusanti biologiche: “Non abbiamo magneti nei nostri becchi o nelle nostre squame”. No, ma se la tua lingua e la tua cultura ti allenano a orientarti, in realtà puoi farcela. Ci sono persone nel mondo che rimangono orientate molto bene».
Un articolo del Sole24ore spiega e approfondisce questa localizzazione spaziale tramite tre criteri linguistici o “cornici di riferimento” (frames of reference), relativo, assoluto o intrinseco, sottolineando come « Non si tratta solo di un modo differente di esprimere la stessa cosa, ma di modi differenti di esprimere concetti differenti. Il linguaggio, come Whorf ipotizzava, influenza, infatti, la nostra cognizione».
Cambia il tuo tempo.
In che modo ordineresti delle foto in ordine cronologico dalla più antica, alla più recente? Anche qui, dipende dalla lingua che parli, e scrivi, in questo caso. Dipende, infatti, dalla direzione della scrittura. Un madrelingua italiano le ordinerebbe da sinistra a destra, se tu parlassi ebraico o arabo, lo faresti nella direzione opposta, da destra a sinistra. La popolazione aborigena dell’Australia in un modo completamente differente: per loro il tempo è determinato dal territorio.
Gli esempi sono dei più vari e puoi trovarli all’interno del talk, la riflessione che ne scaturisce, oltre alla curiosità verso modi di concepire la realtà diversi da noi è, quindi, non considerare scontato il modo in cui ragioniamo, come ci esorta a fare la speaker. «Si tratta di come la lingua che parlate influenza il modo in cui pensate. E questo vi dà l’opportunità di chiedervi: “Perché penso in questo modo?” “Come potrei pensare diversamente?” E ancora: “Quali pensieri desidero creare?”»
La lingua crea la tua identità
La lingua descrive la realtà ed influenza il modo in cui noi la percepiamo, ma non si ferma qui. Vera Gheno ci spiega altre funzioni della parola: «Ogni parola che usiamo è letteralmente un atto di identità. Cioè io dico agli altri chi sono, faccio una dichiarazione». È proprio per questo che, sia che io esprima me stesso, sia che io mi esprima come brand, devo scegliere con cura le parole che uso, perché queste definiscono la mia identità per me e per gli altri.
Interessante è, in questo senso, il talk di Irene Facheris che riguarda le “regole delle regole del gioco” che una buona comunicazione, online come tra amici, dovrebbe mantenere. Vale la pena citarne uno stralcio.
«Adesso, con Internet, ognuno di noi ha un microfono, ognuno di noi può potenzialmente parlare a tutto il mondo. Ecco allora che su Twitter va in tendenza il pensiero di una persona che non ha potere, però ha il potere di dirlo. Ecco che diventa virale un video di una minoranza che dice: “Le cose così non vanno bene”. Ecco che un’azienda fa una pubblicità sessista o omofoba o razzista e fallisce, perché milioni di voci che sussurrano che così non va bene, fanno un baccano enorme se vengono microfonate. Qualcuno pensa che per evitare certi scivoloni sia sufficiente conoscere le regole del gioco. “Allora, questa parola non la possiamo più dire, e questo stereotipo va smussato un pochino. Qui ragazzi sono tutti maschi, ci mettete una donna? Una qualsiasi. Ecco se non è bianca meglio, così siamo un po’ inclusivi. Dai ragazzi, lo sappiamo come funziona.”» (citazione)
Conoscere le regole del gioco, non è più sufficiente, ci sono altre regole che governano le regole del gioco, che sintetizziamo qui, ma puoi approfondire nel talk.
- Regola numero uno: “Se la cosa non riguarda te in prima persona, non fai tu le regole“. Ad esempio, non è un bianco a decidere se una cosa è razzista perché è difficile riconoscere il razzismo se non ne sei vittima, perché non sei allenato a vederlo.
- Regola numero due: “Se vuoi giocare, devi seguire le regole.”
- Regola numero tre. “Le buone intenzioni non sono sufficienti“. Può capitare di sbagliare, anche in buona fede, però rimane una nostra responsabilità, perché siamo stati noi a dire quella cosa. Irene Facheris suggerisce: «Se vuoi fare qualcosa di utile per un’altra persona, devi partire dal presupposto che lei sappia meglio di te come si possa fare. Devi fidarti di quello che ti dice. E se sbagli, ed è umano sbagliare, devi chiedere scusa e riprovare.»
La lingua compie azioni
Ultima funzione della lingua, ci spiega Vera Gheno, è compiere azioni: «Se io sono un professore, ho il potere di promuovere o bocciare uno studente. Se io sono un sindaco, ho il potere di sposare le persone. Se io sono un medico, ho il potere di dichiarare la nascita e la morte». Anche se non hai nessun incarico istituzionale, le tue parole hanno potere, e creano azioni concrete, «possono essere proiettili», come diceva Camilleri.
Le parole sono ciò che ci caratterizza di più come esseri umani, e sono strumenti potenti, che condizionano la nostra realtà, capaci di azioni tangibili, sta a te usarle per affermare la loro vera natura: responsabili di umanità.