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Nelle ultime settimane queste due immagini hanno fatto il giro del web. Si tratta di due foto elaborate con i dati satellitari sull’inquinamento atmosferico acquisiti prima e dopo lo scoppio dell’emergenza sanitaria in corso, in cui è evidente la drastica riduzione delle emissioni di biossido di azoto (cioè quelle rilasciate da veicoli, centrali elettriche e impianti industriali) nell’Italia settentrionale nel periodo successivo all’adozione delle misure di contenimento e del decreto “Io resto a casa” per fronteggiare la pandemia di COVID-19. È stato stimato che nelle settimane successive alle prime disposizioni restrittive emanate dal Governo si sia registrata nella Pianura Padana, l’area più industrializzata del nostro Paese, una riduzione delle emissioni compresa tra il 40 e il 50%. E lo stesso trend sembra riprodursi anche in altre grandi zone industriali del mondo dove le autorità hanno imposto analoghe limitazioni per contrastare l’emergenza epidemiologica, dalla Cina al Vecchio continente. Suona paradossale, e quasi beffardo, che in un momento di drammatica crisi sanitaria, in cui una grande parte delle attività umane in tutto il globo è paralizzata e circa metà della popolazione mondiale (3,9 miliardi di persone) è confinata in casa, il pianeta possa tornare a respirare, quasi a ricordarci che non siamo i suoi padroni.
Il problema del climate change negli ultimi anni ha acquistato un peso crescente nel dibattito pubblico, anche per via degli Scioperi globali per il clima promossi da Fridays for Future, movimento internazionale di protesta fondato dall’attivista svedese Greta Thunberg.
Greta, per sensibilizzare la classe politica del suo Paese ad agire immediatamente nella lotta al climate change, riducendo le emissioni ai livelli previsti dagli Accordi di Parigi, ideò una singolare forma di protesta: durante il mese di agosto del 2018 si rifiutò di andare a scuola, manifestando ogni giorno davanti al Riksdag (il Parlamento svedese) con un cartello con su scritto “Skolstrejk för klimatet” (“Sciopero studentesco per il clima”). La sua curiosa mobilitazione continuò con le stesse modalità anche nell’autunno successivo, ogni venerdì, circostanza da cui trae il nome il movimento a lei ispirato. A partire dal novembre 2018 Fridays for Future ha indetto numerose manifestazioni studentesche di piazza in tutto il mondo per chiedere agli Stati drastici interventi di contrasto al riscaldamento globale e al cambiamento climatico, a cominciare dall’abbandono delle fonti di energia fossili e dall’azzeramento delle emissioni di gas serra.
La lotta al cambiamento climatico, questione su cui negli ultimi anni in tutto il mondo sembra crescere la consapevolezza, rappresenta infatti una sfida cruciale del XXI secolo, che mette in discussione non solo il rispetto di alcuni fondamentali diritti umani (diritto di accesso alle risorse alimentari e idriche, diritto alla salute, diritto all’istruzione, diritto all’abitare, diritto di restare nel proprio territorio d’origine), ma la stessa sopravvivenza dell’umanità.
Ma qual è in concreto l’impatto del cambiamento climatico sui diritti umani? L’ex Presidente della Repubblica d’Irlanda Mary Robinson, prima donna a ricoprire tale incarico, e in precedenza Alto Commissario ONU per i diritti umani, ne illustra qualche esempio in questo interessante talk, raccontando alcuni aneddoti del suo lungo vissuto istituzionale. E sono state proprio le conseguenze della crisi climatica sui diritti umani, e le ingiustizie da essa prodotte, a sensibilizzare Robinson sull’argomento del climate change, sebbene lei stessa ammetta di essersi avvicinata al problema tardivamente.
La speaker racconta la preoccupazione manifestata del presidente della Repubblica del Kiribati, che temendo che il suo popolo debba in futuro lasciare le isole a causa dei cambiamenti climatici ha acquistato dei terreni nelle Fiji come polizza d’assicurazione, nell’ambito di un progetto denominato “migrazione con dignità”. Robinson sottolinea tutta la drammaticità di una condizione in cui un popolo corre il rischio di perdere permanentemente il proprio territorio e la propria sovranità per il global warming. Una minaccia di estinzione per un intero Paese le cui cause, connesse all’antropizzazione, erano inimmaginabili per i redattori della Dichiarazione universale dei diritti umani del 1948.
Secondo la Banca Mondiale, entro il 2050, a meno di interventi tempestivi, ci saranno 140 milioni di migranti climatici, provenienti dall’Africa subsahariana, dell’Asia meridionale e dell’America Latina. Milioni di persone saranno costrette a spostarsi in altri territori perché il clima del luogo in cui vivono diventerà inospitale a causa del climate change.
Robinson racconta la testimonianza di Constance Okollet, che ha fondato un gruppo di donne nell’Uganda dell’Est. Quando Constance era bambina, nel suo villaggio nessuno pativa la fame: le stagioni si alternavano con regolarità e il raccolto era sufficiente a soddisfare le necessità dei suoi abitanti. Ma negli anni seguenti qualcosa iniziò a cambiare. Nel villaggio si susseguivano periodi di siccità e periodi di grandi inondazioni, che avevano causato la distruzione dei raccolti, della scuola e dei mezzi di sussistenza. Con il suo gruppo di donne, Constance cercava di tenere insieme una comunità ferita che, naturalmente, non ha alcuna responsabilità per le emissioni inquinanti che stavano causando quel problema.
La speaker è convinta che il cambiamento climatico sia la più grande minaccia ai diritti umani del XXI secolo. Si tratta, tuttavia, di un pericolo che colpisce in modo diseguale i diversi Paesi del mondo. Così, ad esempio, la devastante alluvione del gennaio 2015 in Malawi, che ha causato trecento vittime e la distruzione dei mezzi di sostentamento per centinaia di migliaia di persone ha colpito un territorio responsabile di emissioni di gas serra del tutto trascurabili rispetto ai Paesi più industrializzati. Le persone che stanno soffrendo maggiormente «non guidano macchine, non hanno elettricità, non consumano quasi niente, eppure stanno sentendo sempre di più gli impatti dei cambiamenti climatici, cambiamenti che gli impediscono di sapere come far crescere bene il cibo e prendersi cura del loro futuro».
Ed è proprio questa grande iniquità di fondo nelle catastrofiche conseguenze del global warming che ha spinto Robinson a porsi il tema della giustizia climatica:
«La giustizia climatica risponde all’argomento morale – entrambi i lati dell’argomento morale – per affrontare il cambiamento climatico. Prima di tutto, per essere dalla parte di quelli che stanno soffrendo e che sono colpiti di più. E in secondo luogo, per essere sicuri che non siano lasciati di nuovo indietro, quando ci muoveremo affronteremo il cambiamento climatico con un’azione climatica come stiamo facendo».
Se vogliamo davvero contenere l’aumento del riscaldamento globale rispetto ai livelli preindustriali al di sotto dei 2 °C (o raggiungere l’ambizioso obiettivo dell’aumento non superiore a 1,5 °C stabilito dagli Accordi di Parigi) è fondamentale azzerare le emissioni di carbonio entro il 2050: ciò equivale a «lasciare circa i due terzi delle risorse di combustibili fossili conosciute sottoterra». Secondo gli esperti, se non interveniamo immediatamente, modificando i nostri comportamenti e le nostre abitudini, rischiamo un aumento di 4 °C entro la fine del secolo, con gravissimo pericolo per la sopravvivenza della nostra e di migliaia di altre specie viventi. Un’enorme minaccia per il futuro del nostro pianeta.
Ma cosa possiamo fare per combattere i cambiamenti climatici? Al di là dei piccoli gesti quotidiani, pure importanti, che ciascuno di noi può compiere (riduzione dei consumi, raccolta differenziata, ecc.), appare evidente la necessità di ripensare l’intero sistema produttivo dalle fondamenta. Solo riconvertendo la produzione in modo che essa abbia il minore impatto possibile sull’ambiente, sarà possibile invertire la tendenza in modo duraturo. A tal fine, secondo Robinson, non è più procrastinabile una transizione energetica verso le fonti rinnovabili, per i Paesi già industrializzati, e la sfida di una crescita senza emissioni per i Paesi in via di sviluppo e le economie emergenti. Quest’ultima, in particolare, richiede una grande prova di solidarietà umana da parte di tutti i Paesi, dettata anche dal comune interesse, dal momento che saremo tutti coinvolti da questi cambiamenti epocali. La grande sfida che abbiamo davanti è quella di costruire «un mondo molto più equo e molto più giusto, e migliore per la salute, migliore per il lavoro, migliore per la sicurezza dell’energia, rispetto al mondo che abbiamo ora», in cui «nessuno viene lasciato indietro».
Le soluzioni proposte per affrontare la minaccia del riscaldamento globale sono numerosissime, e non mancano idee innovative e originali. Ma per la loro concreta realizzazione è indispensabile una generale presa di coscienza e un’assunzione collettiva di responsabilità. Utilizzando le parole di Wangari Maathai, attivista politica, ambientalista e biologa keniota, insignita del premio Nobel per la pace nel 2004:
«Nel corso della storia, arriva il momento in cui l’umanità è chiamata a passare a un nuovo livello di consapevolezza, a ricercare una morale più alta».
Quel momento è adesso. E occorre agire subito. Prima che sia troppo tardi.