Politiche europee contro la crisi: intervista a Maria Antonia Panascì

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Anche TEDxCatania ha voluto omaggiare la Festa dell’Europa con un’intervista -come di consueto alle 15 del sabato sulla pagina Instagram- a Maria Antonia Panascì, speaker della I edizione TEDxCatania. Nel suo talk, nello specifico, Maria Antonia ha parlato del significato dell’essere cittadini europei oggi e del valore della solidarietà comunitaria.

Vediamo cosa ha da dirci oggi!

In merito al Covid 19 e alla recente Brexit, cosa pensi di come l’Inghilterra abbia gestito l’emergenza?

Riguardo la gestione della pandemia da parte del Regno Unito penso che non ci siano opinioni o dubbi, ma dati che parlano chiaramente. Il Regno Unito è il paese col più alto numero di morti in Europa, sebbene avesse circa due settimane di vantaggio rispetto all’Italia. Questo bilancio non è casuale, ma è da imputare ad una precisa scelta politica.

Il 19 aprile è stato pubblicato un report dal Sunday Times che ricostruisce dettagliatamente come il Regno Unito abbia gestito in maniera catastrofica l’emergenza. Il titolo di questa inchiesta è abbastanza evocativo: “I 38 giorni in cui la Gran Bretagna camminò da sonnambula verso il disastro”.

Da questo rapporto emerge come la decisione del governo di non fare niente, di lasciare che l’epidemia si diffondesse tra la popolazione, fosse una precisa scelta politica e quindi come l’immunità di gregge fosse effettivamente la strategia perseguita dal governo, smentendo chi si ostinava a dire che questo non era il piano originale del governo Johnson e che le parole del ministro erano state travisate. È vero che durante il discorso del 12 marzo Johnson non pronunciò mai l’espressione “immunità di gregge”, ma lo fece nei giorni successivi e il chief scientific advisor Sir Patrick Vallance parlò proprio della necessità di costruire questa immunità di gregge e quindi lasciar contagiare il 60 % della popolazione.

I discorsi non si capiscono parafrasandoli, ma inserendoli in un preciso contesto.

Il contesto era quello in cui tutti gli Stati europei si muovevano nella direzione del lockdown, o comunque verso l’adozione di misure restrittive, e invece il Regno Unito consigliava semplicemente di non andare in crociera e di lavare bene le mani.

Quel giorno lo ricordo bene, era un giovedì. Ascoltai allibita questo discorso e la sensazione di frustrazione e di rabbia era comunque condivisa da tantissimi miei colleghi. Erano giorni in cui facevamo una vera e propria battaglia politica qui, all’università, perché tutto continuava a procedere normalmente. Firmammo una lettera a nome dell’Associazione Internazionale dei Ricercatori Italiani per offrire una rappresentazione critica e veritiera circa la portata e gli effetti del Covid 19. Ci sembrava di vivere tra due mondi: da un lato leggevamo le notizie dolorose provenienti da casa e dall’altro qui era “business as usual”. C’è anche da dire che quello che volevamo fare era scardinare questa narrazione dominante secondo la quale «è un virus degli altri», «è un problema italiano probabilmente imputabile all’incapacità del loro sistema sanitario», che cerca e ritrova la causa in una presunta inferiorità antropologica degli italiani.

Vorrei sottolineare che questa strategia non è casuale. Questa politica di “neoliberalismo epidemiologico” ha delle profonde radici culturali e filosofiche, e qui entra il discorso Brexit. Nel senso che quello che traspare dalla gestione iniziale del governo di Johnson è stato il cosiddetto “eccezionalismo britannico”, cioè l’idea di essere diversi e migliori rispetto agli altri e di non avere nulla da imparare dall’esperienza degli altri paesi, soprattutto quelli europei, questa vaga nostalgia dell’impero, questa vocazione coloniale: «siamo noi che abbiamo da insegnare qualcosa agli altri» e questa è stata tutta la retorica tossica che ha accompagnato la campagna per la Brexit. Tra l’altro molti esponenti del governo in quei giorni etichettavano le misure di contenimento dell’epidemia come populiste, quando invece sappiamo che la comunità scientifica è sempre stata concorde sul fatto che il lockdown è l’unica risorsa non farmacologica efficace per fermare il Covid 19. Tutti conosciamo questo famoso paper dell’Imperial College a firma di Ferguson che spingeva appunto per il lockdown. Tra l’altro questo scienziato di fama internazionale è stato silurato perché vittima di uno scandalo, in quanto è stato trovato con l’amante violando l’isolamento.

Il 16 marzo il governo Johnson cambia improvvisamente idea, apparentemente sulla base di nuove evidenze scientifiche (ma la scienza non cambia nel giro di quattro giorni). Ci sono state semplicemente molte pressioni da parte della comunità scientifica e da tantissimi cittadini e si intraprese questa inversione a U, prima attraverso alcune raccomandazioni e poi successivamente il lockdown, adottato come vera e propria misura soltanto il 23 marzo.

Quello che risulta interessante leggendo questo report del Sunday Times è vedere come il governo fosse stato informato della portata dell’emergenza Covid 19 già il 22 gennaio e come la scelta di lasciare diffondere l’epidemia tra la popolazione fosse un piano voluto, nel senso che il Regno Unito ha adottato come modello epidemiologico quello previsto per l’influenza, nonostante sapesse che il Covid 19 non è una normale influenza e ciò nonostante ha continuato imperterrito su questa strada fino al 23 marzo.

La Brexit ha avuto veramente un ruolo fondamentale in tutto ciò perché da questa inchiesta si evince come Boris Johnson fosse impegnato con la sua vita privata (divorzio dalla moglie, la gravidanza della compagna, etc), ma soprattutto impegnato con un altro divorzio: quello dall’Unione Europea. Sconvolge come, nonostante il Regno Unito non sia più membro dell’Unione Europea dal 31 gennaio, fino al 31 dicembre di quest’anno farà parte di alcuni schemi di cooperazione come, ad esempio, il meccanismo europeo di protezione civile; avrebbe potuto quindi avvantaggiarsi dell’appalto congiunto indetto dalla Commissione Europea per la fornitura di mascherine, ventilatori e altri dispositivi di protezione personale e ricevere questo materiale a prezzi molto vantaggiosi e, invece, ha deciso di non partecipare.

Considerata la tua esperienza nel campo, puoi parlarci in generale delle politiche europee adottate dai vari Stati per fronteggiare questa crisi?

Innanzitutto bisogna fare una distinzione tra politiche europee dei singoli stati, cioè come gli Stati si sono comportati a livello europeo, e politiche dell’Unione Europea.

L’Unione Europea è qualcosa di diverso dagli Stati membri, ma allo stesso tempo è fortemente dipendente da essi. Cos’è l’Unione Europea non lo sappiamo neanche noi che la studiamo. È un ibrido: non è uno stato federale ma non è neanche un’organizzazione internazionale. Tecnicamente è un’organizzazione sovranazionale. Gli Stati hanno due modi diversi di associarsi a questa organizzazione.

Il primo: gli Stati si uniscono decidendo di cooperare per raggiungere determinati obiettivi e lo fanno senza rinunciare alla propria sovranità, il processo decisionale è in mano ad ogni nazione.

Il secondo, il metodo sovranazionale: gli Stati si uniscono e, per non “litigare” più, trasferiscono “pezzettini” della propria sovranità riguardo determinate materie ad un’autorità centrale super partes, l’Unione Europea, che deciderà a maggioranza vincolando ciascuna nazione nella propria sfera di azione.

A marzo c’è stata molta confusione in merito dovuta all’accanimento nei confronti dell’Unione, ma è necessario distinguere il comportamento individuale dei singoli Stati e il comportamento dell’Unione Europea, che, ad esempio, è intervenuta minacciando la Germania per le procedure di infrazione, ha sbloccato l’export per le proprie competenze sul mercato interno. Si tratta di giocare allo stesso gioco dei sovranisti che lamentano sempre un’Europa assente ma non la vogliono mai riformare.

Il 23 aprile il Consiglio Europeo ha adottato un pacchetto ambizioso: gli strumenti di cui si è dotata l’Unione in questi mesi sarebbero stati impensabili fino a qualche tempo fa. La solita narrazione legata all’Europa è stata interrotta facendo emergere una sfera europea pubblica: il presidente del Consiglio italiano, per esempio, entra nelle case dei cittadini spagnoli o tedeschi rivoluzionando del tutto l’attenzione nei confronti delle politiche europee. Anche sul fronte dell’Europa più intergovernativa qualcosa si è mosso.

Cosa ha fatto poi l’Unione Europea nello specifico? Ha attuato tantissime misure che possiamo elencare: più flessibilità negli aiuti di Stato, ha proposto l’attivazione della clausola di salvaguardia relativamente al patto di stabilità e crescita (questo significa che i governi adesso possono spendere di più perché non devono rispettare il limite del 3% del PIL), ha lanciato la cassa integrazione europea basata su prestiti garantiti dagli Stati membri, ha costituito una scorta comunitaria di materiale medico, gli appalti congiunti, ha stanziato fondi destinati alla ricerca sul Covid 19 e tantissime altre misure.

 A livello europeo e di cooperazione comunitaria, come pensi che sia opportuno gestire il progressivo ritorno alla normalità?

Il problema dell’allentamento delle misure restrittive chiama in causa il coordinamento a livello europeo, ogni azione che uno Stato decide di compiere influenza le scelte e le iniziative degli altri;  la Commissione ha in merito decretato che l’attenuazione dei lockdown deve essere quanto più concertata possibile.

La Commissione voleva pubblicare una exit strategy, che però è stata bloccata da alcuni governi che temevano che potesse trasmettere un messaggio sbagliato alle varie popolazioni. In ogni caso questa road map è stata pubblicata più tardi e fondamentalmente sono elencati tre criteri.

Il primo è un criterio epidemiologico: è necessaria la diminuzione dei casi in un arco temporale significativo.

Il secondo criterio è la capacità dei sistemi sanitari, cioè la disponibilità dei posti letto in terapia intensiva, la disponibilità del personale medico e del materiale protettivo.

Il terzo criterio è quello del tracciamento: gli Stati devono essere in grado di saper individuare i casi e isolarli. A questo proposito la Commissione ha pubblicato delle linee guida anche rispetto alle app di tracciamento che potranno essere adottate su base volontaria.

Quello che è emerso da questa crisi è che la salute pubblica è un bene europeo che va tutelato.

Tramite un’analisi chiara e approfondita, Maria Antonia ci ha fornito una prospettiva critica attraverso la quale comprendere al meglio il ruolo effettivo dell’Unione Europea, ossia quello di mero sostegno sovranazionale. L’Unione ha, pertanto, il dovere di sostenere e coordinare l’azione degli Stati membri, ma non potrà mai intervenire su ciascuna scelta nazionale.

Photo by Rocco Dipoppa