Vuoi essere il migliore o essere migliore?

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Il primo giorno di scuola delle elementari sancisce l’inizio di un percorso di formazione e di competizione che si concluderà, probabilmente, con la pensione e che, tra alti e bassi, avrà come comune denominatore la continua propensione verso il successo. La sete di conoscenza che potenzialmente si trova alla base dell’istruzione lascia il posto, fin da subito, a rigide categorizzazioni, a “voti” come espressione di approvazione o diniego, al meccanicistico bisogno di ottenere l’eccellenza, ignorando la fatica che ne sarà conseguenza. Il poter-dover ottenere il massimo, espresso come esaltazione del risultato finale e mai come constatazione del percorso necessario per raggiungerlo, risulta paradossale e irrealistico perché di fatto non corrispondente alla realtà e fonte di estrema ansia divagante, specialmente tra i più giovani. Se la nostra attenzione è focalizzata sulla punta dell’iceberg, raggiunta quest’ultima, ci si impegna a cancellare la fatica dalla nostra mente, a dimenticare il sacrificio come condizione a sé stante e non come parte fondante l’intero percorso. Il bisogno di distrarsi, di “divergere”, “girarsi dall’altra parte”, il divertissement su cui Pascal ci invita a riflettere, inteso come fuga dai problemi da cui bisogna discostarsi per non rimanerci incatenati. Dalla stessa necessità di emancipazione da sacrifici alienanti si sviluppa l’idea di “tempo libero”, concetto che, fin dalla propria origine (rivoluzione industriale), consiste in un indispensabile momento di tregua da un lavoro che rende “ingranaggio tra ingranaggi” e che tutto risulta fuorché frutto di vocazione o passione. Dai nostri piaceri d’altronde non sentiamo il bisogno di distrarci. Questa visione, forse un po’ marxiana del lavoro come alienazione da noi stessi è, tuttavia, in grado di porre la nostra attenzione sul valore del risultato, della sconfitta e della vulnerabilità. Il lavoro e la fatica, meccanicisticamente prodotti tendono infatti a farci considerare l’errore come una drammatica situazione da evitare, da nascondere e di cui vergognarsi, rendendo il quotidiano funzionale a un obiettivo sempre diverso e sempre migliore. Diventiamo parte integrante di una catena di montaggio nella quale puntiamo a essere i migliori. Ma siamo proprio sicuri di voler essere i migliori? In un sistema che ci riduce ai risultati delle nostre azioni, siamo sicuri che esista davvero chi possa essere il migliore?

Il quesito è un vicolo cieco e la risposta ci ingloba in un vortice che si autoalimenta. Le riflessioni a riguardo sono infinite; approdiamo alla conclusione che, verosimilmente, in ogni circostanza della nostra vita ci sarà sempre qualcuno che sarà bravo quanto o più di noi…ma cosa significa essere più bravo? Fino a che punto il mio risultato può essere messo a confronto con quello degli altri? Noteremo come, in questa staffetta che è la vita, nessuno di noi parte dalla medesima posizione: ci sono condizioni economiche, sociali, familiari, educative così diverse da far risultare quasi paradossale anche solo un ipotetico paragone. Talvolta l’estrema bravura di chi abbia avuto la possibilità di eccellere è stata accompagnata da condizioni idonee a far germogliare questa predisposizione e questo impegno, un corollario di variabili nettamente rilevanti, ma quasi mai considerate. La realtà di tutti diviene realtà di pochi, le opportunità dei migliori diventano opportunità dei migliori più fortunati. Tale riflessione risulta potenziata dall’esperienza di Don Milani, che in Lettera ad una professoressa denuncia gli effetti di un sistema scolastico elitario che garantisce l’istruzione solo a determinati soggetti privilegiati, emarginando anche i più meritevoli perché colpevoli di essere meno abbienti.

«Cara signora, lei di me non ricorderà nemmeno il nome. Ne ha bocciati tanti. Io invece ho ripensato spesso a lei, ai suoi colleghi, a quell’istituzione che chiamate scuola, ai ragazzi che “respingete”. Ci respingete nei campi e nelle fabbriche e ci dimenticate».

Le parole di Don Milani si riferiscono al contesto scolastico degli anni 50/60, è una denuncia politica della mancanza di meritocrazia divagante che stroncava i sogni e le vite di migliaia di giovani italiani a cui non era riconosciuto il basilare diritto all’istruzione. Un modus operandi che violava esplicitamente il comma 3 dell’art 34 della nostra Costituzione, che recita “I capaci e meritevoli, anche se privi di mezzi, hanno diritto di raggiungere i gradi più alti degli studi”.

L’esempio di Don Milani non è tuttavia settoriale: include infatti anche il calderone di competizione in cui siamo catapultati, terminato il liceo o l’università, spesso fittizio, malsano e funzionale al mantenimento di uno status quo a cui ogni giorno ci si tenta con fatica di adattare in silenzio. Realtà di estrema crescita e confronto individuale e collettivo, come quelle accademiche, diventano teatri di umiliazione, offese, approcci disumanizzanti che conducono all’annullamento del singolo e che, nel peggiore dei casi, terminano in tragedie. È proprio in questi momenti che dobbiamo chiederci che tipo di persone vogliamo essere, che tipo di professionisti vale la pena diventare.

Qua si coglie la separazione tra voler essere riduttivamente (e illusoriamente) il migliore o voler essere migliore rispetto a una versione di noi stessi precedenti da cui è opportuno sempre emanciparsi, rispetto a un sistema tossico con cui potremmo avere la sfortuna di confrontarci. Di fatto prendere coscienza di voler essere migliore significa considerare i propri errori, errori di metodo che iniziano e finiscono nel nostro operato e che non intaccano il nostro valore di persona che in questo non si manifesta. Significa concentrarsi sulle proprie abilità cercando in tutti i modi di potenziarle per trasformarle in ottimi traguardi, ma mai ridurle a questi, considerare la possibilità di essere soggetti vulnerabili tra 7 miliardi di soggetti altrettanto vulnerabili.

Brené Brown, ricercatrice su tematiche riguardanti la connessione umana, l’empatia e lo spirito di leadership, nel suo talk tratto dal TEDxHouston racconta di aver svolto un’indagine su un campione di persone da lei determinato e di aver creato infine due gruppi:

«persone che hanno davvero un senso di dignità, di merito […] – hanno un forte senso di amore ed appartenenza – e persone che hanno difficoltà con questo, persone che si domandano sempre se sono all’altezza». Aggiunge: «C’era una sola variabile che separava le persone che hanno un forte senso di amore e di appartenenza e le persone che hanno difficoltà a raggiungerlo. E cioè, le persone che hanno un forte senso di amore e appartenenza credono di meritarsi amore ed appartenenza. Tutto qui. Credono di meritarselo».

Tendenzialmente diamo sempre tutti noi stessi per ciò che crediamo di meritare ed è giusto che ciascuno di noi si prodighi in questa direzione per veder realizzato in atto ciò in cui realmente confidava in potenza.

La dottoressa Brown continua dicendo «queste persone avevano, semplicemente, il coraggio di essere imperfetti. Avevano la compassione di essere gentili con sé stessi prima, e poi con il mondo, perché, come dimostrato, non possiamo essere compassionevoli con altre persone se non riusciamo a trattare bene noi stessi. […]L’altra cosa che avevano in comune era questa. Accettavano completamente la vulnerabilità. Credevano che quello che li rendeva vulnerabili li rendeva belle persone. Non parlavano della vulnerabilità in maniera confortevole, né ne parlavano come qualcosa di straziante. […] Ne parlavano come di una cosa necessaria».

«Essere capaci di fermarsi e, invece di vedere una catastrofe come possibile risultato, dire “Sono così grata, perché se mi sento così vulnerabile significa che sono viva».

La vulnerabilità è la condizione che più ci avvicina alla vita, lo sbaglio è parte integrante del nostro esseri umani, “è normale che sia normale”.  Risulta in questa sede rilevante specificare che accettare la vulnerabilità non si identifica col rendere la quotidianità un susseguirsi di passività e di sbagli giustificati e giustificabili, ma tutto il contrario. Significa sfruttare la propria fatica come trampolino di lancio per un futuro migliore del presente in cui varrà sempre più il percorso che il traguardo. Le sconfitte, che troppo spesso ci hanno insegnato a odiare, non devono farci ammalare, ma devono farci scostare da quel delirio di onnipotenza che tanto ci sta scomodo. Tutto ciò che facciamo è nostro e ci apparterrà per sempre, il risultato finale distinto dal passato non esiste e la progettualità del presente è dovuta alla concatenazione di tutti gli eventi di cui siamo protagonisti. Anche se l’iter si mostra più travagliato del previsto, con numerose insidie e profondi scoraggiamenti, ciò che spesso dimentichiamo è che tutto ciò che facciamo, lo facciamo prima per noi stessi che per gli altri. “Ciò che dai è tuo per sempre”, anche se nell’immediato non è un successo, anche se nell’immediato non ti sembra utile. Nella Fenomenologia dello spirito l’immagine hegeliana del servo contrapposto al signore risulta chiarificatrice in merito. L’apparente vulnerabilità del servo, del soggetto debole che teme la morte e si sottomette nello scontro col più forte, si trasforma in vigore e in vittoria. Egli, infatti, unico che lavora, ha col suo prodotto un rapporto immediato, essendo questo frutto del suo ingegno, delle sue mani e di sé stesso, rimanendo tale anche dopo che gli è stato sottratto per essere utilizzato dal padrone che, paradossalmente, ne godrà di meno. È qui presente una sorta di inversione dialettica che mostra la relatività della forza e della debolezza, che può e deve suscitare una riflessione, mai così attuale, sulla differenza tra essere migliore ed essere il migliore e gli effetti che ne conseguono. Le migliaia di sfaccettature che ci caratterizzano come esseri umani sono così vaste e peculiari da non potersi fisicamente ridurre a giudizi, numeri e apparenze, a definizioni astratte di perfezione che non appartengono a questo mondo. Scoprire che la realizzazione di sé stessi si trova nel miglioramento quotidiano è tanto difficile quanto necessario; le sfide per chi lavora seriamente sono inevitabili, spetta a noi scegliere di viverle come teatro di sofferenza e sopraffazione o come banco di prova delle nostre potenzialità.

«So bene come ti senti e so quanto ti sbagli, credimi.
No, non è vero
Che non sei capace, che non c’è una chiave».
Una chiave –  Caparezza